Ho pensato parecchio a come scrivere questo post, e ci ho
messo molto tempo a decidermi, primo perché lo trovo importante e, come è
ovvio, volevo scriverlo bene, secondo perché mi sono resa conto che sarebbe
stato molto facile cadere negli stessi errori che il post si propone di
combattere: la disinformazione, l’allarmismo, la cattiva divulgazione.
Cercherò
perciò di essere il più generica possibile per non creare fenomeni di
allarmismo su un aspetto in particolare e, soprattutto, cercherò di fare al
meglio il mio mestiere: lo scienziato. E cercherò di usare la mia preparazione
per aiutarvi un po' a capire quando qualcuno sta facendo cattiva divulgazione
scientifica, cercherò di dare a chi non ha una preparazione scientifica come la
mia qualche indizio, qualche campanello d’allarme che si metta a suonare quando
un post letto su internet o un articolo letto su un giornale è un esempio di
disinformazione dannosa.
Partiamo dalle basi. Cos’è l’informazione scientifica? È
l’informazione che passa da uno scienziato (un ricercatore, un dottorando, un
professore) al resto del mondo. Poiché lo scienziato, spesso, non è un
divulgatore, il passaggio dal ricercatore al mondo non avviene in un passaggio solo.
Prima, lo scienziato comunica i suoi risultati alla comunità
scientifica attraverso la pubblicazione su riviste scientifiche, scritte in
inglese e consultabili (non sempre gratuitamente se non si fa parte del mondo
accademico) on line. È un processo tutt’altro che immediato: l’articolo, per
essere pubblicato su una rivista scientifica, deve superare “l’esame” di altri scienziati
(si chiamano reviewers o peers) che prima di approvare la pubblicazione possono
chiedere chiarimenti sulle metodologie, richiedere esperimenti di controllo,
dati supplementari, confutare le analisi eseguite, confutare i risultati stessi
se ritengono che gli esperimenti non siano stati condotti nel modo corretto, o
confutare il modo in cui i risultati sono discussi e le conclusioni tratte
dagli autori. La pubblicazione può richiedere anche due o tre revisioni
progressive dell’articolo scientifico, e spesso gli articoli vengono poi rifiutati dalla rivista (gli editor della quale sono comunque scienziati) se i
reviewers (anche loro scienziati) non si dichiarano soddisfatti di come
l’autore ha risposto alle loro critiche. La pubblicazione scientifica è un passaggio di
informazioni tra SCIENZIATI, tra addetti ai lavori, per così dire. L’articolo
scientifico non è fatto per essere compreso da tutti, e non perché i “non
scienziati” non siano abbastanza intelligenti per capirlo, ma perché è scritto
in una maniera tale da richiedere una preparazione adeguata, spesso specifica,
per essere compreso. Un biologo non comprenderà facilmente un articolo di
fisica quantistica o di sociologia, e viceversa.
Da chi viene letto l’articolo quindi? Da altri scienziati,
in primis. Scienziati che lavorano in accademia e che fanno i ricercatori a
loro volta, ma anche clinici e personale dell’area medica che poi potranno
utilizzare i risultati di quell’articolo, magari, per ideare terapie
sperimentali innovative, o scienziati impiegati nel settore ricerca e sviluppo
di industrie farmaceutiche, che magari sfrutteranno quei risultati per progettare
nuovi farmaci… questi sono solo esempi. Tra chi legge gli articoli scientifici
possono esserci anche persone che si occupano di DIVULGAZIONE, cioè che (per
lavoro o per passione) si occupano di tradurre alcune di quelle informazioni
tecniche e scientifiche in un linguaggio più comprensibile anche a chi non ha
una preparazione, appunto, tecnico-scientifica. Perciò, per arrivare al privato
cittadino non-scienziato l’informazione fa due salti: dallo scienziato al
divulgatore, dal divulgatore al resto del mondo.
E qui sorge il primo problema. Il divulgatore può anche non
essere uno scienziato: può essere un giornalista, può essere un blogger, può
essere il responsabile marketing di un’azienda che pensa di poter profittare
(direttamente o indirettamente) dei risultati di quelle scoperte, può essere un
appassionato che scrive un post su facebook o un tweet. In casi fortunati
questa persona può essere laureata in discipline scientifiche, ma potrebbe
anche non esserlo. Per citare un estremo, la figura di “divulgatore” potrebbe anche essere
ricoperta da uno che ha sentito l’amico/fratello/cugino che fa il ricercatore parlare di
risultati suoi o di altri, ha capito l’otto per il diciotto e poi vi viene a
riferire una notizia completamente falsa spacciandovela per scientificamente
provata perché “l’ha detto il mio coinquilino che lavora all’Imperial College
di Londra”.
Qui arriva perciò il primo consiglio: chiedetevi chi è la figura del
divulgatore e/o quanti sono i divulgatori coinvolti: quanti “salti” ha fatto
l’informazione prima di arrivare a voi? Avete modo di saperlo? Chi sono le
persone che hanno fatto rimbalzare la notizia? Quante possibilità ci sono che
abbiano letto e capito la fonte originale dell’informazione? Magari non avrete
modo di rispondere a nessuna di queste domande, ma già farsi venire il dubbio
predispone ad un atteggiamento critico nei confronti dell’informazione stessa.
La divulgazione “ufficiale” viene fatta di solito tramite
riviste di largo consumo, apposite o meno, affidabili o meno. Ma ad oggi la
fonte primaria di divulgazione è sempre internet. Cosa troviamo su internet?
Risposta: di tutto. Dai siti/blog di divulgazione scientifica fatti bene alle
idiozie più colossali. Fare divulgazione scientifica oggi è facilissimo,
soprattutto se i risultati hanno qualche collegamento con i problemi più
attuali: esce un articolo scientifico focalizzato sullo studio delle
conseguenze dei vaccini? Qualunque sia il risultato mostrato nell'articolo, mille blog scriveranno post
su di esso, alcuni facendo un lavoro fedele di divulgazione dei risultati
(semplicemente traducendo in linguaggio più colloquiale ciò che è scritto con
terminologia troppo tecnica), altri travisando completamente il messaggio.
Viene pubblicato un articolo che identifica nella cacca di gallo cedrone
siberiano una molecola coinvolta nell’inibizione dei meccanismi metabolici che
portano all’obesità (l’esempio è appositamente idiota per non essere scambiato
per vero)? Immediatamente duemila blog scriveranno che spalmarsi la pancia di
cacca di gallo cedrone siberiano fa dimagrire.
È su questo che volevo concentrarmi in questo post: come si
fa a riconoscere chi fa divulgazione scientifica seriamente e chi invece
(coscientemente o meno) fa disinformazione? Non è facile, ma ho intenzione di darvi qualche
indizio. Ricordatevi però che sono solo questo: indizi, non certezze
matematiche. Non è impossibile trovare post divulgativi ben fatti, quasi insospettabili,
eppure responsabili di colossali truffe. La cosa davvero triste è che tutto ciò
potrebbe essere fatto di proposito, con il preciso (e criminale) intento di
creare allarmismo e paura, o di spingere le persone a spendere soldi e tempo in
qualcosa, come terapie fai da te, rimedi omeopatici, visite da sedicenti specialisti, e chi più ne
ha più ne metta, creando anche situazioni di pericolo per la salute delle
persone.
Il primo indizio arriva proprio all'inizio: il titolo. Diffidate
di titoli troppo sensazionalistici. Cosa intendo per sensazionalistici?
Quelli che identificano troppo chiaramente una relazione causa-effetto, ad
esempio. Quelli che non utilizzano nessuna cautela nel definire i benefici di
un farmaco o di un alimento, o nel definirne eventuali effetti negativi.
Diffidate dell’indicativo presente, in sostanza. Prendete questo esempio:
nell’articolo scientifico originale gli autori traggono la conclusione che “la
molecola ABC (contenuta in piccole quantità nell’alimento HJK) è coinvolta
nella patogenesi della malattia XYZ”, in un post di divulgazione il titolo
potrebbe essere “HJK causa XYZ!”. Il post non ha tecnicamente detto una falsità
ma, mentre l’effetto del messaggio scientifico originale dovrebbe essere quello
di usare moderazione e buonsenso nell’assumere l’alimento HJK, l’effetto del
titolo del post divulgativo sarà quello di spingere le persone più
impressionabili a bandire dalla propria tavola l’alimento HJK. Magari eliminare
un alimento dalla propria dieta non è un gran problema, ma provate a pensare di
ripetere lo stesso processo per tre o quattro molecole diverse e già la dieta
finale della persona “impressionabile” potrebbe avere qualche conseguenza.
Ancora più pericoloso potrebbe essere il processo inverso: “la molecola ABC
(contenuta in piccole quantità nelle radici della pianta DFG) ha attività
antitumorale” diventa “DFG cura il cancro!”. Che succede se poi persone malate
si mettono in testa di curarsi solo con infusi di radici di DFG? E che succede
se le radici di DFG, oltre alla molecola ABC, contengono anche molecole
tossiche? Siamo solo al titolo (e a giudicare dagli inquietanti dati di
analfabetismo funzionale, il titolo potrebbe essere l’unica cosa che alcune
persone leggono) e già stiamo creando un mare di problemi. E tenete presente
che già il messaggio originale conteneva un’affermazione all’indicativo
presente che, vi assicuro, nel mondo scientifico è una rarità: i reviewers
tendono a chiedere agli autori di mitigare le proprie conclusioni, usando ad
esempio “potrebbe essere coinvolta” invece di “è coinvolta”, a meno che i dati
non siano assolutamente inconfutabili e verificati su un numero di soggetti
esorbitante.
Secondo indizio: osservate il
linguaggio utilizzato, già nelle prime frasi del post. Il primo campanello d'allarme è la correttezza sintattica e
grammaticale: ho notato che spesso chi scrive idiozie le scrive pure male. Il
secondo campanello è, di nuovo, il linguaggio
sensazionalistico: troppa certezza, troppo clamore nello sbandierare i
risultati, troppa fiducia in ciò che i dati lasciano intendere non si addicono
alla scienza. Scienza è mettersi in dubbio, è essere affascianti da ciò che si
scopre senza sovrastimare le sue potenzialità, è fare un passo alla volta nella
direzione della “verità” assicurandosi di non comunicare falsità, è mostrare i
frutti del proprio lavoro con orgoglio senza cadere nella tentazione di
attribuire loro significati che non hanno (ancora). Se il post vi comunica
qualcosa di diverso, fatevi venire il dubbio. Non dico che debba per forza
essere falso: per fare un esempio, i risultati finali positivi della sperimentazione
finale di una nuova cura contro un tipo di tumore finora poco trattabile SONO
un risultato eccezionale e saranno, anche in ambito scientifico, presentati
come tali; ma quanti post o articoli riguardano davvero la “scoperta” di cure
contro mali incurabili? Pochi. Terzo campanello: eccessiva generalizzazione: diffidate di chi scrive “cancro” senza
specificare di quale tipo di tumore sta parlando, di chi scrive diabete senza
specificare se di tipo I o II, di chi parla di problemi alla tiroide senza
chiarire ulteriormente a quale delle decine di disordini tiroidei che esistono
si sta riferendo, di chi usa frasi come “aiutare il metabolismo” (aiutare in
che senso? Quale metabolismo?) o “bruciare grassi” (nel caminetto?), di chi
utilizza il prefisso “bio”, che va tanto di moda, davanti a parole a caso
ottenendo una stupefacente assenza di significato (mi è capitato di leggere
“biobatteri intestinali”: che diavolo sono i bio-batteri?!)… potrei andare
avanti ad oltranza e faremmo Natale. Il sunto è: fidatevi di più di chi
identifica una patologia specifica, di chi usa un linguaggio corretto anche se
non tecnico, di chi trasmette fiducia nella scienza senza clamore e di chi
manifesta, sempre sulla scienza, legittimi dubbi senza per questo demonizzare
tutto il mondo della ricerca. E di chi evita di inventarsi termini assurdi.
Cercate un link
all’articolo scientifico originale, alla fonte. Non c’è? Diffidate.
C’è? Apritelo. Spesso potrete leggere soltanto titolo, autori e abstract, se non vi collegate utilizzando un server accademico, però anche senza una conoscenza specifica dell’argomento (e anche
senza una conoscenza approfondita dell’inglese, oserei dire) riuscirete, se non
altro, a confrontare il titolo dell’articolo e il titolo del post: sembrano
coerenti o il titolo del post è esagerato? O, addirittura, il titolo del post
travisa completamente il titolo dell’articolo? Già questo confronto potrà darvi
ulteriori indizi. Ma, da scienziata, vorrei cercare di darvi qualche strumento
in più perciò ora fate attenzione: così come esistono pessimi esempi di esseri
umani, esistono anche PESSIMI SCIENZIATI. Di conseguenza, esiste la CATTIVA
SCIENZA. Purtroppo viviamo in un mondo imperfetto e anche la cattiva scienza
può avere il suo spazio nelle pubblicazioni scientifiche, sia su riviste mediocri che, più raramente, su ottime riviste
(se in qualche modo lo scienziato ha influenza sull’editor; so che è
brutto da dire, da parte di una persona
che incita ad avere fiducia nella scienza, ma la scienza è fatta da scienziati
che hanno tutti i difetti di ciò che sono: umani).
Cosa intendo per buone o cattive riviste?
Le riviste scientifiche sono tantissime: possono essere generiche
(broad audience, le chiamiamo, intendendo le riviste che pubblicano articoli
interessanti per ogni “tipo” di scienziato, come Nature o Science) o
settoriali, possono avere un grandissimo seguito o essere lette e citate solo
da scienziati impegnati in quel particolare settore. Per distinguere
le riviste migliori la comunità scientifica si è inventata diverse “metriche”,
la più comune delle quali è l’
IMPACT FACTOR, un indice che tiene conto di quanto gli articoli usciti su quella rivista vengono citati da altri
articoli scientifici: in teoria, più un articolo è interessante e affidabile più
viene citato in altri lavori, perciò più una rivista fa uscire articoli di buon
livello più il suo impact factor sale. Non solo: più una rivista ha alto impact
factor più avrà interesse nel mantenere il prestigio, perciò più sarà severa e
selettiva nella scelta degli articoli da pubblicare, arruolando esperti di alto
livello per revisionare gli articoli che le vengono proposti dagli scienziati
di tutto il mondo. In questo modo la qualità delle ricerche pubblicate su
quella rivista dovrebbe farsi progressivamente più alta, permettendole di
essere sempre più citata. È una sorta di circolo vizioso, ovviamente soggetto
ad errore umano e a eventuali simpatie o antipatie di editor e reviewers, ma IN
TEORIA dovrebbe rendere la qualità degli articoli scientifici pubblicati su
quella rivista direttamente proporzionale all’impact factor della rivista
stessa. È un sistema imperfetto ma è il migliore che abbiamo, per ora.
Perciò
la domanda che dovete farvi è:
su quale
rivista è pubblicato l’articolo scientifico sul quale si basa il post che ho letto?
A questo
link potrete trovare gli impact factor di tutte le riviste
scientifiche. Per farla breve, ci sono riviste ad impact factor altissimo, su
cui è difficilissimo pubblicare (sono riviste broad audience come Nature, che
se non ricordo male dovrebbe essere in testa alla classifica con un impact
factor attorno a 42, o Science, Cell, Lancet, tutte le riviste della collana
Nature e Nature Reviews che hanno un impact
factor maggiore di 30. Poi ci sono altre riviste, comunque molto prestigiose ma
un po’ più settoriali, specialmente dell’area medica, con degli impact factor
intermedi (per intenderci, riviste settoriali avranno impact factor ovviamente
inferiori a quelle più generali, perché articoli settoriali saranno citati
appunto all’interno dello stesso settore). Poi ci sono le riviste a basso
impact factor, anche inferiori a 2 o 1. Ora, supponiamo di essere uno
scienziato che ha in mano dei brutti risultati, e magari ha anche una buona
dose di presunzione che non gli permette di apprezzare quanto il suo studio sia
limitato o lacunoso: tenteremo di pubblicare su una rivista ad alto impact factor, che ci
rifiuterà la pubblicazione (magari direttamente, senza nemmeno farlo passare
dai reviewers), allora ripiegheremo su riviste di impact factor via via
inferiori, fino a che non troveremo un editor distratto o poco serio e
reviewers compiacenti, situazione che, verosimilmente, si verificherà su
riviste a impact factor davvero basso. Ecco, questo è il meccanismo. È chiaro che
uno scienziato potrà anche essere poco fortunato, incontrare reviewers poco onesti
o editor prevenuti. Però, in generale, questo sistema tenta di garantire che
su
riviste molto lette e molto citate (quindi con alto impact factor) si pubblichino articoli di ottima qualità.
Mi sono dilungata, ma spero di essere stata chiara.
Voglio lasciarvi un ultimo consiglio: fate attenzione a come
i post divulgativi che usano la parola CORRELAZIONE. È una parola pericolosissima,
in bocca alle persone sbagliate. Statisticamente, correlazione tra due eventi
significa che il verificarsi di un evento avviene contestualmente al
verificarsi dell’altro, se la correlazione è positiva, oppure che il
verificarsi di uno tende ad escludere il verificarsi dell’altro (correlazione
negativa). NON SIGNIFICA CHE UNO DEI DUE EVENTI CAUSA L’ALTRO (o l’assenza
dell’altro). Uno dei cavalli di battaglia della cattiva informazione
scientifica è proprio questo: suggerire relazioni causali tra due eventi che,
nell’articolo originale, sono stati riportati come correlati. La correlazione è
pura osservazione degli eventi. Trovare una correlazione può essere un indizio
di causalità, ma può anche non esserlo. Per sostenere una tesi di causalità
devono essere presentate ben altre evidenze (esperimenti in vitro, prove su
modello animale), non basta osservare che le due cose accadono insieme.
La correlazione è pericolosa e ingannevole anche per un
altro motivo: una persona poco onesta e con un po’ di manualità nell’ottenere
grafici riuscirà a farvi credere che determinati eventi sono correlati anche se
non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro. Mostrata una presunta
correlazione (e una figura è più potente di mille parole), basterà suggerire
velatamente che uno degli eventi possa essere causato dall’altro per
impressionare e allarmare persone con meno spirito critico. Potrete trovare
qui una trattazione molto bella di questo problema, ma cercherò di spiegarmi meglio
con un esempio. Prendiamo un evento che abbia avuti un andamento crescente
dagli anni cinquanta ad oggi: il numero di diagnosi di autismo nei bambini, ad
esempio (uno a caso, eh). Quale sia la causa di questo andamento crescente non ci è dato sapere
con certezza, ma so che gran parte della comunità scientifica fa notare come in
realtà le scienze comportamentali abbiano subito una grande espansione negli
ultimi decenni, identificando sempre più forme di sindromi autistiche e
sviluppando metodi di diagnosi sempre più precisi e precoci: ergo, l’incremento
non sarebbe tanto nella casistica quanto nel riconoscimento delle situazioni.
Questo non è rilevante, comunque. Ora, prendiamo un qualunque altro evento che
abbia subito un incremento dagli anni cinquanta ad oggi: ce ne sono a bizzeffe,
a partire dall’utilizzo di fitofarmaci e fertilizzanti in agricoltura,
inquinamento dell’aria, numero di televisioni nelle case, donne che lavorano
fuori casa, alfabetizzazione e, perché no, numero di bambini vaccinati. Un buon
grafico con qualche conoscenza di statistica riuscirà a farvi vedere una
correlazione tra uno qualsiasi di questi eventi e l’incremento delle diagnosi
di autismo. È facilissimo, basta giocare un po’ con la scala di
rappresentazione dei due eventi. Potrei farvi vedere che l’incremento delle
diagnosi di autismo è correlato all’incremento nel numero di nidi di piccione
sotto le tegole delle case, se volessi; non significa che i due eventi abbiano
davvero qualcosa a che fare l’uno con l’altro. Prima di essere squartata da
eventuali antivaccinisti in ascolto: è vero, non posso escludere a priori che i
vaccini abbiano avuto un ruolo nell’eventuale incremento nella casistica, per
carità. Anzi: essendo uno scienziato e, pertanto, intrinsecamente portata a
seguire indizi e farmi domande, mi chiedo se i due eventi siano davvero legati e
se uno può essere la causa dell’altro. È questo che fanno gli scienziati. È
questo che la comunità scientifica sta facendo da anni: si è fatta delle
domande e ha disegnato studi sempre più ampi e sempre più mirati a valutare il
legame tra autismo e vaccini e no, finora non è stata dimostrata nessuna
correlazione reale o relazione causale tra i due eventi.
Detto questo ci tengo a precisare una cosa: non sono un
medico, non sono un’impiegata in una ditta farmaceutica, non ricevo nessun tipo
di incentivo per dire quello che ho detto. Sono una microbiologa, lavoro in
università e studio gli ecosistemi batterici complessi, soprattutto quelli
legati al corpo umano come il microbiota intestinale e il suo rapporto con la
salute umana. Ma prima di tutto e soprattutto, sono una che ama la ricerca e
tutto ciò che questo rappresenta: il continuo mettersi in dubbio, il continuo
studiare ciò che altri hanno scoperto, la possibilità di togliere quel
mattoncino in più dal muro dell’ignoranza.
E la cattiva informazione è peggio dell’ignoranza.