martedì 27 dicembre 2016

Senza rancore, caro 2016, ma....




Se qualcuno mi chiedesse di fare un bilancio del 2016 probabilmente farei una bella, sonora pernacchia. Ci sono state belle esperienze, assolutamente, a cominciare dalla divertentissima avventura della pubblicazione di “Mi sei capitata per caso”, ci sono stati interessanti sviluppi sul lavoro, e soprattutto c’è stato il veder crescere i miei nanerottoli: il primo giorno di scuola di una, le prime frasi di senso compiuto in simil-italiano dell’altro, la meraviglia di vedere il loro potenziale illimitato nel distruggere e nel creare: distruggere ogni certezza che prima credevo di avere, per crearne una sola, grande, quella della nostra famiglia. Ma, sopra, sotto e di fianco a tutto questo c’è stato un anno impegnativo sotto tanti punti di vista, e un autunno/inverno pieno di preoccupazioni e pensieri.

Il nanerottolo più nano ha avuto dei problemini: abbiamo dovuto fare un piccolo intervento che poi non è andato a buon fine ed è saltata fuori una complicazione che ora dobbiamo curare e che sarà una cosa lunga. Niente di preoccupante nel senso più grave del termine, ma sicuramente una situazione da gestire, con cure impegnative e stressanti da ripetere tutti i giorni. Ed è da gestire anche l’ansia quando vedi la perplessità negli occhi dei medici, quando vedi quel “ma come, non ha funzionato? E io che mi invento adesso?” scritto sulla loro fronte corrugata.
Ne usciremo, in qualche modo, e siamo seguiti bene. Ma questo non toglie nulla alla stanchezza, allo stress e alla paura di provocare delle conseguenze psicologiche o emotive in un bambino di due anni che deve sopportare piccole torture, anche solo per dieci minuti, due volte al giorno, tutti i giorni, da più di un mese e chissà ancora per quanto.
Se da questo periodo ho imparato qualcosa però è questo: bisogna insistere. Bisogna rompere le palle, sempre, e telefonare e ritelefonare, e non aver paura di disturbare un medico o una segretaria. Purtroppo l’unico modo per essere seguiti e curati è trovare la persona giusta che prenda il caso che ha davanti come una sfida personale ma che, al tempo stesso, capisca che ha davanti una persona (nello specifico, un bambino piccolo), non soltanto un caso clinico, con una sua storia, le sue paure e il suo personale livello di sopportazione alle cure. Lo spazio per adattare una terapia alle esigenze personali non c’è sempre, ma avere davanti qualcuno che comprende la difficoltà di dover tener stretto un bambino in due adulti perché un terzo abbia spazio di manovra per effettuare la cura, fare un aerosol fastidioso, mettere gocce o spalmare creme, beh, ti rassicura e sai che non tenterà strade inutili solo per farti far qualcosa mentre cerca di farsi venire un’idea migliore. Medici così esistono. Cercateli, se vi trovate in una situazione simile. Rompete le scatole al mondo finchè non vi sentite “al sicuro”.

Quando vedi un bambino stare poco bene ti senti quasi sempre inadeguato: vorresti soffrire tu per lui, vorresti che a lui fosse risparmiato tutto, vorresti buttare tutto alle ortiche – mondo, lavoro, persone – se questo servisse a farlo guarire subito, seduta stante. Purtroppo non si può: si continua a lavorare, si arranca tra un appuntamento lavorativo e un appuntamento con un medico, si corre in farmacia, ci si attacca al telefono della pediatra per farsi fare le ricette, si spendono soldi. Per come sono fatta io, a questo si aggiunge anche il continuo terrore di non essere abbastanza: di non essere stata abbastanza sveglia da trovare prima il medico giusto, di non essere una madre abbastanza brava da gestire l’aspetto psicologico del dover “torturare” un bimbo che non capisce perché lo stai torturando, di non essere una madre abbastanza onnipotente e onnipresente da non trascurare l’altra figlia perché il piccolo ha bisogno di cure, di non essere abbastanza ubiquitaria da essere allo stesso tempo al lavoro, a un congresso, a prendere la figlia a scuola e a coccolare il nanerottolo dopo l’aerosol, di non avere abbastanza energia per non addormentarsi sul divano mentre tenti di guardare un film con il marito, di non essere abbastanza perfetta.  E va beh. Ognuno ha diritto al proprio veleno, no?

Non ho scritto molto ultimamente. Questo mi dispiace, ma non sono una di quelle persone che trova conforto nello scrivere: scrivo per divertimento, per evasione, perché mi piace e mi appassiona, ma non costituisce una terapia per i momenti brutti. Devo essere più serena di così per scrivere con efficienza e godermi ciò che sto scrivendo. Il conforto vero resterà, sempre e per sempre, la lettura. Questo fa di me molto più una lettrice che una scrittrice ma va bene così, non ho mai voluto, né potuto essere altro.
Questo non significa che non ho scritto proprio niente, che non scriverò più, che non voglio, o che non mi manca: significa solo che alla sera o durante il giornaliero viaggio in treno, sento il mio cervello talmente sovraccarico dalla continua organizzazione di cure, visite, esami e lavoro da fare e senso di colpa per non aver fatto tutto abbastanza bene… che, beh, il mio cervello chiede tregua dal mondo, chiede di andare da qualche parte in cui può riposarsi, sentirsi leggero, sentirsi a casa. Dove? Dove si è sempre sentito così: nei libri.



Perciò in realtà, per quanto questo sia stato un periodo difficile, questo è un post di ringraziamento per chi in questo momento mi è stato vicino:
…grazie a Lucrezia e Martine, che mi hanno portato alla corte del re Sole, un luogo e un tempo che ho sempre amato, facendomi vivere le loro splendide avventure.
…grazie a Cordelia e Cassian che mi hanno portato in una Venezia romantica, in cui le acque della laguna profumavano un po’ di casa, come le nebbie del Presidio.
…grazie a Caleb, maltrattato dall’autrice che vuole farsi passare per macellaia, ma a me è riuscita solo a dare approdi sicuri in questi pochi anni in cui l’ho conosciuta.
…grazie ad Aelin, e alla sua avventura epica che riesce tutte le volte a farmi sognare.
…grazie a Magnus, per la cui simpatia dovrei essere troppo cresciuta, ma non c’è data di scadenza per ciò che ci fa sentire bene.
…grazie a Kelsea, nella cui umanità, debolezze e sacrifici, nonostante la (splendida) ambientazione irreale un po’ distopica, ho riconosciuto il modo in cui siamo cresciute noi: libri, severità, desiderio di essere speciali e uniche e, spesso, ignoranza del modo in cui lo eravamo davvero.
…grazie a “the Queen”, regina di una storia a corto di nomi, in cui Neil Gaiman mi ha fatto sognare, ancora una volta, sempre.
…grazie a Terry.
Sono solo alcuni dei tanti grazie che dovrei dire, tutti i personaggi che mi hanno sostenuto, tutte le parole che mi hanno circondata, proteggendomi dalle cose pesanti del mondo e dalle cose pesanti di me stessa, grazie a tutte le pagine che ho girato in questo periodo: ognuna di esse a spinto uno dei miei passi per farmi andare avanti.

Come ho scritto un po’ di tempo fa su facebook, una sera il marito stava dicendo a nostra figlia che da grande non si sarebbe più lasciata fare le coccole da lui, che gli avrebbe detto “lasciami stare, sono già grande!”, e lei gli ha risposto “No, ti dirò, lasciami stare che sto leggendo!”.
Ecco. Non sa leggere, ancora, ha sei anni. Ha detto quella cosa perché vede me leggere, perché le ho detto spesso che leggere mi fa stare bene e mi fa sognare luoghi lontani e mondi che non esistono, e lei vuole fare come me. Non so se davvero leggerà, da grande; non so se sarà come me e vivrà mille vite nei libri, se questo la farà diventare un’adulta migliore, se questo la conforterà nei momenti brutti che arriveranno. Ma lo spero: è l’augurio che le faccio per Natale, per il nuovo anno in cui imparerà a leggere, per tutta la vita che l’attende.

Ed è un augurio che lascio a tutti: avere sempre un libro in borsa, sul comodino, sul bracciolo del divano, sul rotolo della carta igienica in bagno. Per i momenti belli e quelli brutti. Per leggere da soli o vicino a qualcuno. Per sognare un futuro o riscoprire un passato. Per capire gli altri o vivere se stessi.
Buon 2017!
Incrociamo le dita, va...

mercoledì 5 ottobre 2016

Riflessioni canadesi

Sono a Quebec City in questi giorni, per un congresso; un viaggio di lavoro, da sola, come mi capita di fare ogni tanto.



Questa mattina sono andata a fare colazione in un cafè (il Cosmos Cafè, se mai vi capitasse di bazzicare questi luoghi oltre la Barriera ve lo consiglio). Mi sono seduta ad un tavolino, il cameriere mi ha riempito la tazza di caffè (e poi ha continuato a farlo per tutto il tempo in cui sono stata lì, alla Gilmore Girls – adoro questa cosa che non è italiana per niente, la amo alla follia: tu stai lì seduta e appeni posi la tazza te la riempiono. Se lo facessero con l’alcol sarebbe un casino.) Comunque, dicevo, mi sono seduta, in un tavolino illuminato dal sole che però faceva un effetto strano grazie ai vetri colorati del locale, e ho ordinato una “sublime crepes”. Per inciso, sul menu mi sono un attimo confusa perché tutto quello che aveva dentro pezzi di frutta costava esattamente il doppio di tutto quello che aveva dentro carne, formaggi e uova; poi mi sono ricordata che siamo oltre la Barriera e che se vogliono mettere del melone su una crepes in ottobre, beh, mi pare il minimo che gli costi quanto un rene. Vabbè. Il cameriere con un delizioso accento francese ha detto “Sublime crepes? The same as you!” (Tesoro. Lo so che lo fai per la mancia, ma lasciatelo dire, con me, alla mattina alle sette, con il jet leg stampato in nero violaceo sotto gli occhi, you’re doing it right.)
Insomma, mentre aspettavo che mi portasse la crepes e bevevo il mio caffè senza fondo ho tirato fuori l’e-reader e ho iniziato a leggere (Empire of Storms della Maas), nella pace assoluta di un locale pieno di gente sconosciuta. Ciliegina sulla torta, tutti parlavano francese e io non ne capisco una parola.
Ero in pace, serena, e mi godevo il momento. La pace era accompagnata però da un fondo di solitudine. Non era amaro, non era angosciante, non era accompagnato dalla paura, era solo… c’era. Tutto lì. E mentre leggevo, bevevo caffè e mangiavo una crepes deliziosa imbevuta di sciroppo d’acero, ho capito che quel fondo di solitudine era giusto e bello e corretto che ci fosse. Quell’accento di solitudine è in realtà il mio tesoro più prezioso.

Amo viaggiare. Ho la fortuna di poterlo fare di tanto in tanto per lavoro: sono una scienziata, vado a congressi, conferenze, meeting. Viaggiare per lavoro significa quasi sempre viaggiare da soli, ma io ho anche la fortuna di non averne paura: ho girato diverse città da sola, mi piace perdermi, quasi di proposito, girando a caso finchè non è ora di tornare all’albergo e allora tiro fuori la cartina e chiedo indicazioni e parlo con la gente. Viaggiare da soli ha il suo fascino, ed è un fascino diverso da quello del viaggio di coppia o di famiglia; non puoi condividere le impressioni, non puoi commentare, ma hai più tempo per pensare a quello che vedi, e non devi rendere conto a nessuno se a un certo punto vedi una panchina che è LA panchina perfetta, e ti siedi e ti metti a leggere mezz’ora, semplicemente perché era la cosa perfetta da fare in quel momento su quella panchina.

Dall’altra parte però, ho la fortuna di avere una famiglia che amo con tutta me stessa e una casa, che è casa nel senso fisico ed emotivo del termine, un luogo che abbiamo costruito, fisicamente ed emotivamente, per essere una parte di noi, quella stabile e fissa, con tanti sacrifici e tanta ostinazione. La mia casa è un luogo da cui non sento il bisogno di scappare mai, il luogo a cui tornare, il luogo da cui andarsene è sempre dettato dal “voler fare”, mai dal “voler scappare”.

Ecco, quel fondo dolce di solitudine che ho provato questa mattina leggendo un libro da sola, che ho provato dopo camminando sulla terrazza lungo il San Lorenzo, che provo nelle serate come questa, in hotel più belli di quelli che io prenoterei mai per me stessa… quella solitudine è il simbolo di queste due fortune combinate, ed è preziosa, proprio perché in realtà fortune non sono.

Ho lavorato e studiato, duramente, per diventare una scienziata, per svolgere un lavoro che amo e che comporta anche il viaggiare.

Ho scelto un compagno con il quale immaginare una casa, quella casa sia fisica che emotiva di cui parlavo prima, con dentro una famiglia che non avrei mai voluto se non con lui, e proprio per questo ancora più desiderata e amata, perché il completamento naturale di ciò che siamo insieme. Ho scelto un compagno per il quale le mie competenze e il lavoro per cui le uso non fossero un problema anche se questo mi porta a viaggiare, conoscere persone, stare lontana da casa tutto il giorno e a volte anche per più giorni: un compagno che, pur facendo un lavoro completamente diverso dal mio, avesse per noi la stessa visione di casa, di realizzazione e di famiglia, che mettesse al primo posto il “noi” ma sapesse che non vuol dire annullare l’“io”. E no, non sopporto chi mi dice che sono fortunata ad avere un marito così: me lo sono scelto. Non lo avrei sposato se non fosse stato così. Non ci avrei fatto dei figli e adesso staremmo parlando di nulla se non fosse fatto così.

Ho scelto un compagno di cui fidarmi ciecamente perciò sì, c’è sempre la preoccupazione quando me ne vado per qualche giorno, ma so che i bimbi sono in ottime mani e quello che viene a mancare per qualche notte è soltanto la metà di un “noi” che per un poco può funzionare bene comunque. C’è la preoccupazione ma non il terrore, c’è la voglia di essere insieme ma non il senso di inutilità se non lo si può essere per qualche giorno, c'è la voglia di condividere ma non l'assenza di piacere nel vedere comunque cose nuove, c'è la voglia di parlare ma anche la gioia di sapere di poterlo raccontare, c’è la voglia di abbracciare ma la gioia di sapere di avere un luogo in cui quegli abbracci ci sono tutti i giorni, un luogo che io, anche con il mio lavoro, ho contribuito a creare. Perché la casa, il giardino, la famiglia sono un lusso, per il quale bisogna essere grati, sì, ma per il quale non bastano i buoni propositi e una vita sana, come la Lorenzin ci vuole far credere. Ho avuto la mia prima figlia a 26 anni, stavo ancora finendo il dottorato: l’ho potuto fare perché mio marito l’università non l’aveva fatta e stava già lavorando da diversi anni, anche lui fortunatamente facendo un lavoro che ama, per cui un tetto sopra la testa l’abbiamo avuto. Abbiamo la fortuna, oggi, di vivere in campagna, con un grande giardino e l’orto e gli animali, che è una vita sana per noi e per i bambini e una miniera d’oro per la banca a cui pagheremo il mutuo tutti i mesi fino all’erasmus dei nostri figli.

Perciò, in conclusione, come ama dire mia mamma Riccioli D’oro che adora il cartone di Mulan, “sono un insetto fortunato”, una formichina per la precisione, che ha lavorato un bel po’ per potersi ritenere fortunata, e la vera fortuna che ha è proprio quella di amare il proprio lavoro.


Cara ministra, le madri felici e serene devono essere prima di tutto donne felici e serene. Persone, felici e serene. Aiuta le persone a vivere serenamente il proprio lavoro, ad amarlo. Il resto verrà da sé.

giovedì 15 settembre 2016

Chiudo gli occhi

È passato un po’ ormai dal terremoto di Amatrice. Qui a Bologna praticamente non si è sentito, non ci siamo svegliati di note in preda al panico, come era successo 4 anni fa, durante il terremoto di Finale. Alla sera abbiamo detto ai bambini di aspettare un poco per guardare i cartoni animati, perchè volevamo seguire la cronaca dei soccorsi, sapere quanto era stato distruttivo e catastrofico.
Mia figlia ha guardato con noi, ha chiesto cosa era successo, cosa volesse dire terremoto (lei aveva due anni, non ricorda quello che aveva svegliato noi), perché la TV diceva che erano morte delle persone. Mi è venuto da piangere mentre le rispondevo, mentre la voce fuori campo della televisione parlava di bambini piccoli rimasti schiacciati dalle macerie, bambini che erano arrivati in ospedale senza nessuno che potesse firmare il consenso al trattamento perché tutti i familiari erano morti, bambini che erano lì in vacanza, dai nonni, i cui genitori (rimasti a Roma, rimasti ad Ancona o in qualunque altra città) hanno dovuto partire nel cuore della notte, magari senza sapere se stavano andando a riabbracciare un figlio, ad assisterlo in ospedale o a raccoglierne il cadavere.
Mia figlia mi ha guardato, ha osservato un po’ il telegiornale, poi è scoppiata a piangere e mi ha chiesto di cambiare canale, di mettere su un cartone animato, per favore, mamma, per favore.
Ovviamente ho cambiato canale. Abbiamo messo su il DVD de La spada nella Roccia, lo ricordo bene, e lo abbiamo guardato tutti insieme, anche il piccolo che rideva per Merlino e la maga Magò, abbracciati sul divano. Poi abbiamo messo a letto i piccoli, abbiamo guardato un altro film, letto un libro, preparato il pranzo per il giorno dopo, sistemato i giocattoli, non so: una serata normale.
Dopo un po’ diventava normale anche nei pensieri. Il cervello umano si difende da queste tragedie, ci porta a non pensarci, ci focalizza sulle cose normali, come se ci dicesse “lascia fuori questi pensieri, non sono successi a te, lascia stare, non pensarci.” Per certi versi è orribile, sì, ma è normale, è un meccanismo di sopravvivenza: se non fosse così arriveremmo a sentire il dolore di ogni persona che soffre e la somma di tutto questo ci schiaccerebbe, cominceremmo a sentirci in colpa perché siamo in salute mentre altri non lo sono, perché abbiamo una casa mentre altri non ce l’hanno, perché abbiamo un figlio mentre altri non possono o l’hanno perso, perché siamo vivi. E smetteremmo di fare l’unica cosa che invece possiamo fare: vivere.
Non sto dicendo che è corretto sbattersene. È importante non dimenticare, è importante rendersi conto, empatizzare per un poco, aiutare tutte le volte che è possibile, trovare un modo per rendersi utili. Ma è importante, e naturale, anche ritornare sulla propria isola, vivere il proprio spazio, la propria vita, preservarsi. Siamo isole. Come dice Neil Gaiman in American Gods, Dunne sbagliava: se non fossimo isole, non sopravviveremmo.

No man, proclaimed Donne, is an island, and he was wrong. If we were not islands, we would be lost, drowned in each other's tragedies. We are insulated (a word that means, literally, remember, made into an island) from the tragedy of others, by our island nature and by the repetitive shape and form of the stories. The shape does not change: there was a human being who was born, lived and then by some means or other, died. There. You may fill in the details from your own experience. As unoriginal as any other tale, as unique as any other life. Lives are snowflakes- forming patterns we have seen before, as like one another as peas in a pod (and have you ever looked at peas in a pod? I mean, really looked at them? There's not a chance you'll mistake one for another, after a minute's close inspection) but still unique.
Without individuals we see only numbers, a thousand dead, a hundred thousand dead, "casualties may rise to a million." With individual stories, the statistics become people- but even that is a lie, for the people continue to suffer in numbers that themselves are numbing and meaningless. Look, see the child's swollen, swollen belly and the flies that crawl at the corners of his eyes, this skeletal limbs: will it make it easier for you to know his name, his age, his dreams, his fears? To see him from the inside? And if it does, are we not doing a disservice to his sister, who lies in the searing dust beside him, a distorted distended caricature of a human child? And there, if we feel for them, are they now more important to us than a thousand other children touched by the same famine, a thousand other young lives who will soon be food for the flies' own myriad squirming children?
We draw our lines around these moments of pain, remain upon our islands, and they cannot hurt us. They are covered with a smooth, safe, nacreous layer to let them slip, pearllike, from our souls without real pain.

Ho riletto American Gods non molto tempo fa, potremmo dire che lo rileggo periodicamente e, anche se ormai lo so quasi a memoria, in ogni momento in cui l’ho riletto mi ha dato qualcosa di diverso. L’ultima volta mi sono fermata sul monologo di Mr. Ibis di cui fa parte il pezzo che ho incollato qui sopra, l’ho letto e riletto diverse volte e sono riuscita a mettere in parole perchè la foto di Aylan morto sulla spiaggia o le immagini del bambino di Aleppo seduto nell’ambulanza mi facessero così male: davano un volto a storie di infanzia spezzata che mai nella mia vita vorrei associare ai miei figli.
Ricordo che, quando sui social e sui giornali veniva sbandierata ogni tre per due la foto del bambino morto, riverso sulla spiaggia, avevo rifiutato furiosamente (scrivendolo anche su facebook) la facilità con cui quell’immagine veniva condivisa. Mi è stato risposto che quella foto favoriva la consapevolezza nelle persone, che doveva mostrare al mondo la tragedia, che doveva essere condivisa per stimolare le persone ad agire. Mi è stato detto che non condividerla era da codardi e menefreghisti. Ricordo che ho pensato d’istinto, per la prima volta nella mia vita (ed erroneamente), che forse davvero la frase “Capirai quando sarai mamma” in quel caso aveva un senso – per inciso, odio quella frase, non credo affatto che si possa capire qualcosa del rapporto madre-figlio solo quando si diventa madre. La maternità ti cambia, ma in modo personalissimo, strettamente dipendente dalla te stessa di prima e dal bambino che ti ritrovi a dover crescere: la prima maternità mi ha cambiata, ma la seconda l’ha fatto di nuovo.
Mi sono sentita in colpa, però. Mi sono chiesta: è vero? Il mio “non riuscire a guardare” è uguale al “non voler vedere” di chi tra noi (relativamente benestanti, relativamente liberi, relativamente in pace) e loro (perseguitati dalla guerra e dall’aver perso tutto, disperati al punto da affrontare un viaggio della speranza in cui molti perdono la vita) vorrebbe erigere muri?
Quel passaggio di Neil Gaiman mi ha risposto di no.
Non ho guardato quelle immagini, ascoltato il numero di morti, osservato i video di quelle macerie, senza sentire nulla. Non sono rimasta indifferente. Ho sentito tanto, forse troppo: il dolore di quelle immagini mi è entrato dentro e mi ha invaso, per un poco, la mente e l’anima. Poi ho arginato quell momento di dolore, per andare avanti, per guardare i miei figli senza il terrore negli occhi, per non vivere nell’angoscia che qualcosa del genere possa succedere anche a loro. È un meccanismo di difesa, non mi rende cattiva, mi rende solo umana.
Ci sono persone che guardando quelle immagini riescono a trovare il coraggio e la forza di mollare tutto e andare là dove serve e fare qualcosa. Sono persone grandi. Io non appartengo a quella elite, ma non appartengo nemmeno a quella feccia che è capace di guardare le immagini e non provare nulla, che è capace di sfruttare quelle immagini per guadagnare notorietà senza rispetto per il dolore – che è reale, anche se su internet non sembra - , che è capace anche di riderne, a volte.
Sono un essere umano, che cerca di vivere ciò che gli è stato dato al meglio delle proprie possibilità, facendo del proprio meglio per le persone che ha accanto e per non danneggiare nessuno, nè le persone nè il mondo in cui vive. Sono un essere umano che cerca di circondarsi di cose belle quando può, ma soprattutto cerca di creare bei ricordi e avere accanto belle persone. Sono una di quelle persone per cui fare qualcosa vuol dire non sprecare, non inquinare, rispettare gli altri e offrire aiuto materiale secondo le proprie possibilità. Sono un essere umano che quando qualcosa fa troppo male, a volte, chiude gli occhi.
In realtà non so dove porta questo monologo: era qualcosa che avevo necessità di formulare, forse. O forse vorrei solo che più persone possibile leggessero American Gods, così, per il gusto di diffondere la conoscenza di uno dei libri che credo meglio rappresenti l’umanità, pur essendo un fantasy.

Risultati immagini per american gods

O forse volevo solo chiudere ancora un po' gli occhi per non vedere tante altre cose che adesso mi fanno male quando apro un social network: il giudizio lapidario nei confronti di persone che nemmeno conosciamo, quella necessità morbosa di esprimere opinioni crudeli ed insultanti anche quando nessuno ce lo chiede, di ritenerci in diritto di categorizzare persone (che non conosciamo) sulla base di cosa condividono o non condividono su un social network, di pensare che ciò che trapela da un post o da una foto (o da un video, ragazzi) possa rappresentare la totalità di quella persona. Basta. Lasciate che gli esseri umani siano tali: lasciate loro la possibilità di chiudere gli occhi, di fare errori, di provare o rifiutare un’emozione come meglio ritengono. Non nasciamo migliori di altri, ma rendercene conto, paradossalmente, potrebbe permetterci di diventarlo.


venerdì 26 agosto 2016

Il corpo della vergogna

NOTA: Scrivo questo post un po’ in ritardo perché non riuscivo a decidermi, mi pareva troppo personale. Poi ho pensato che magari condividere un’esperienza può aiutare anche altre persone che si sono trovate nella stessa situazione. Perciò ecco qui, la mia vergogna.



Puntuale come il mal di denti durante le vacanze, arrivano gli imbecilli estivi. Come il tormentone dell’estate. Quasi quasi preferivo Luca Carboni ai tempi d’oro.

Sono andata dalla fioraia a comprare un mazzo di fiori per il compleanno della nonna e sì, ammetto che non avevo scelto l’abbigliamento con cura, forse avevo una canotta aderente, forse era l’unica pulita (ho due figli, lavoro a tempo pieno: sono sempre indietro con le lavatrici, sono una di quelle che se proprio butta male si ferma in merceria di ritorno dal lavoro e compra mutande per tutta la famiglia per guadagnare qualche giorno). Ero con mia figlia, quella più grande, di sei anni: questo non sarebbe rilevante, se non fosse per il fatto che non è affatto deficiente, capisce quanto, appunto, una bambina di sei anni. Ma veniamo al dunque.

La fioraia guarda la mia figura (sto cercando di non essere cruda, sto cercando una scusante, ma francamente non ne trovo: voi guardate così ossessivamente il punto vita delle altre persone? Solo a me non frega un fico secco di quale buco della cintura usano gli altri?) e chiede A MIA FIGLIA quando nascerà il fratellino.

Inutile dire che non c’è nessun fratellino, ci sono solo i residui di due tagli cesarei in 4 anni e gli effetti che l’avere poco tempo per fare esercizio fisico ha sulle ormai defunte addominali di una ex atleta.
Mia figlia mi guarda stranita come a dire “che cazzo vuole questa da me?”. Lei non dice “cazzo”, ovviamente. Ma se fosse abbastanza grande per poter dire parolacce in mia presenza sono convinta che l’avrebbe detto.
E a me è toccato ingoiare il rospo, rassicurare mia figlia con un sorriso, SORRIDERE alla fioraia e spiegare che le mie addominali hanno solo risentito delle esperienze pregresse.

Quest’anno è stato particolarmente fastidioso perché è stata coinvolta mia figlia, ma questa scena è capitata già tre o quattro volte l’estate scorsa e, ora, una volta anche quest’anno. Sono dimagrita un po’, rispetto a un anno fa, quando dal secondo cesareo era passato soltanto un anno, ma evidentemente non abbastanza.

Sono tornata a casa, ho lasciato i bimbi con la nonna per un po’ e mio marito mi ha trovata in lacrime sul divano.
Mi vuole bene, mi conosce, sa che sono una ex pattinatrice, che non riuscirò mai a staccarmi completamente dall’apparenza del mio corpo perché è ciò che, insieme alle mie capacità di atleta, ha determinato la mia riuscita (o non riuscita) come danzatrice. Ci sono cose che il tuo cervello assimila in giovane età e poi fatica a lasciare andare. Tuttavia, pur conoscendomi così bene, il sunto della sua reazione è stato “hai due lauree, un dottorato, sei una scienziata che sa parlare a congressi internazionali davanti a centinaia di persone e ti mette in crisi una cretinata che ti dice una fioraia, probabilmente senza connettere il cervello alla bocca?”
La risposta è sì. Mi mette in crisi, mi ferisce, non posso farci nulla. Sono abbastanza adulta, matura e intelligente per sorridere, stringere i denti, ingoiare il vaffanculo e, in definitiva, dare un esempio che considero intelligente, adulto e maturo a mia figlia. Ma vi posso assicurare una cosa: la ragazzina che l’allenatore teneva a stecchetto, quella che provava davanti a quello specchio impietoso per essere sicura che i movimenti non fossero soltanto tecnicamente impeccabili ma anche belli da vedere, beh non è mai cresciuta del tutto. Quella ragazzina frigge di rabbia infantile, irrazionale e impotente nel vedere quel fisico che l’allenamento, la dieta e la cura limavano ogni giorno perché tendesse il più possibile a ciò che i canoni della situazione ritenevano perfetto, trasformarsi seguendo il corso della vita che ho scelto. Quella ragazzina piange di stizza vedendosi soppesata sulla base del proprio fisico, ancora, quando non può farci nulla.
Non posso farci nulla perché il mio corpo è lo specchio di ciò che ho scelto per la mia vita, di ciò che ogni giorno scelgo dando la precedenza alla mia famiglia, al trascorrere tempo con i miei figli invece di iscrivermi a un corso di GAG in palestra, perché fare la mamma ed essere lontana da casa per lavoro dalle otto di mattina alle sei di sera (un lavoro che amo, a cui non ho rinunciato anche se la pendolarità è pesante) significa voler trascorrere ogni singola mezz’ora disponibile con la mia famiglia, soprattutto ora, che le pesti sono piccole. Non mi metterò a discutere con chi sostiene che il tempo si trova e che è una questione di priorità, perché è vero: è una questione di priorità, che portano a scelte, che portano a relegare al “quando posso” alcune cose che non hanno la priorità rispetto ad altre.

Questo qui sotto è ciò che quella ragazzina un po’ superficiale, che ha passato l’adolescenza ad allenarsi con impegno, pensa ancora di dover essere, ciò che questi commenti idiota le ricordano di non essere più (la foto è orribile, ho fotografato con il cellulare una foto appesa in casa dei miei, ma non è rilevante).



10 anni e 2 figli fa: pesavo 7-8 chili in meno di ora, mi allenavo due o tre ore al giorno almeno. Non metterò una foto di ciò che sono ora, perché l’adulta che sono diventata si sta impegnando tanto per spiegare a quella ragazzina che NON è importante. Sono ancora così: una taglia in più, i fianchi un po’ più rotondi e un punto vita non invidiabile, ma non sono diventata un’altra. Sono la versione adulta di quella danzatrice che sta cercando di spiegare a quella superficiale ragazzina che il punto vita non è rilevante quanto la vita che lo ha formato: un tempo quel punto vita sottile e sodo come il marmo era frutto di ore sulla pista, di passione per uno sport bellissimo, di sudore e fatica mai rimpianti, ora questo punto vita pieno di smagliature e di addominali che proprio non ne vogliono sapere di rassodarsi è frutto di una scelta di vita che rifarei miliardi di volte, di un lavoro che amo e che ho scelto di continuare a fare a tempo pieno, di bambini – che sono bambini solo ora, che presto diventeranno grandi e non saranno meno amati, ma saranno diversi - che richiedono un tempo ugualmente mai rimpianto.

Questa è la mia vergogna: non la taglia 44, la pancetta che sporge, o il culo meno sodo, ma la mia incapacità di spiegare a quella ragazzina che il tempo è passato, che deve guardare oltre, guardare altro. Così come devono guardare altro tante persone al mondo che, dando importanza alla forma fisica delle persone che hanno davanti e facendo commenti inappropriati, feriscono la ragazzina (o il ragazzino) che non vedono (che nessuno vede) e poi spediscono l’adulto di cui hanno visto solo un dettaglio irrilevante a piangere sul divano.

Diventare adulti, spesso, passa anche dall’ammissione delle proprie debolezze, perciò eccomi qui: sono la ragazzina che non è mai cresciuta e che ha pianto tanto, ma sono anche l’adulta che adesso trova le parole, i discorsi, la coerenza mentale che la ragazzina non aveva, per cercare di spiegare come, quanto e perché fa (ancora) così male. 

martedì 2 agosto 2016

Di treni, di libri e del perchè sono sparita.

Ho avuto momenti brutti questa primavera. Lavorativamente. Emotivamente. Personalmente. Sono stata molto stanca, molto stressata, molto preoccupata. Ci sono state attorno a me persone che non stavano bene. Ci sono stati bambini che avevano bisogno di mille cure sfinenti, mille aerosol, mille colliri, mille sciroppi, mille attenzioni. Mille sorrisi che in certi momenti era davvero fatica concedere, ma che poi era difficile frenare. Mille abbracci che spesso rappresentavano uno dei pochi momenti luminosi della giornata. Tante serate sfinite, a dormire sul divano con la TV accesa e la testa appoggiata su una spalla che, per fortuna, non si è mai scansata.
Ci sono stati momenti in cui l’ironia e il sarcasmo cattivo erano l’unico modo di ridere.
Sono momenti. La vita è fatta di questi e di altri, e mentre aspetti gli altri cerchi di tenere insieme i pezzi durante questi.
Durante questi momenti leggere è sempre stato il mio porto sicuro. Leggo molto quando sono serena perché la mia mente si apre al nuovo con più facilità. Rileggo molto durante i momenti bui perché ci sono libri nella mia vita che rappresentano dei fari, delle sicurezze, delle funi a cui attaccarmi. Ma leggo, sempre e comunque.
Ci sono luoghi letterari – Armida, Castel Aldaran, Arilinn, Hogwarts, The Dreaming, la Vecchia Capitale, Terre D’Ange, il Distretto 12 – in cui mi sento al sicuro. Ci sono sensazioni che non ho mai provato nella vita – il freddo ventoso degli Hellers, la penombra del sole rosso sul lago di nebbia di Hali, la pressione dei nastri di un corsetto nero sotto un abito bianco, il vociare di Diagon Alley – che mi sono familiari come poco altro nella vita reale.



Leggo in treno, tantissimo, perché è una pausa che mi ricarica dopo l’uscita dal lavoro e prima di rientrare in casa, dove l’orda barbarica attende la propria dose di sorrisi, abbracci, attenzioni (e piatti in tavola e mutande pulite e pavimenti su cui camminare senza prendere il tetano, sì, anche quello). È una pausa dal mondo di cui sento fisicamente il bisogno. Venticinque minuti che sono miei e soltanto miei.
Penso che ci siano molte persone come me: le ho viste, con la coda dell’occhio, che non sollevano lo sguardo dal kindle o dal libro, o che guardano furtivi al di sopra di esso, sperando che nessuno con la voglia di chiacchierare si sieda vicino a loro. O che fanno finta di non sentire se qualcuno li saluta. Perché magari alla mattina abbiamo anche voglia di chiacchierare con chi prende il treno con noi, ma a volte abbiamo solo voglia di leggere, di non essere costretti ad ascoltare, di non essere per forza interessati. Abbiamo voglia di noi. E non è maleducazione, non è sociopatia: è solo voglia di silenzio, di mondi lontani o di storie vicine, di dialoghi divertenti o di descrizioni commoventi.
Perciò, pendolari e avventori dei mezzi pubblici, se vedete qualcuno leggere (o scrivere al computer) non pensate che lo stia facendo perché si annoia o perché non ha nessuno con cui chiacchierare. NON VUOLE nessuno con cui chiacchierare. Non vuole parlare, né con voi né con altri, non è un fatto personale. Ha voglia di rilassare il viso in espressioni che non siano quelle tirate di circostanza che a volte sei costretto ad assumere sul lavoro, ha voglia di rilassare la bocca perché magari ha parlato tutto il giorno, ha voglia di non dover avere un’opinione su qualcosa, di non doversi esprimere.
Mi sono fatta l’idea che per alcuni sia difficile da capire, forse ci sono persone che il silenzio proprio non lo sopportano, che non concepiscono avere vicino qualcuno e non chiacchierarci. (Poi magari sono le stesse persone che mentre ti parlano non riescono a non scorrere facebook sul cellulare, ma va bene anche quello.)
Vi facilito le cose:

Se sto leggendo, non parlarmi.

Se sto scrivendo al computer, non parlarmi.

Se ti rispondo distrattamente che il posto di fianco a me è libero e mi rimetto a leggere, non è un invito a chiacchierare, è solo una constatazione del fatto che lì non deve sedersi nessuno.

Se ti saluto è perché sono educata, non perché ho voglia di chiacchierare. 

Se ti sembra che non abbia voglia di ascoltarti non è una tua impressione: non ho voglia di ascoltarti.

Se chiudo il libro mentre mi parli (sempre perché sono educata) ma lascio il dito in mezzo  alle pagine non è perché mi sono dimenticata a casa un segnalibro: è un chiaro invito a smettere di parlare e lasciarmi tornare a leggere. (E sì, non uso segnalibri, lo ammetto, sono uno di quei mostri che piegano le orecchie delle pagine.)

Non chiedermi cosa leggo o cosa scrivo, più che altro perché poi mi chiederai automaticamente “ma è bello? Ma che genere è? Ma di cosa parla?” e, no, fidati, non sei pronto per avere questa conversazione con un vero lettore. Non in treno, alle sei di sera, con soli venti minuti a disposizione davanti. 

Non pensare che farmi i complimenti perché leggo in inglese sia un buon modo per attaccare bottone: non mi metterò a parlare in inglese per divertirti, non ti farò lezione privata e non ti spiegherò come ho imparato l’inglese. Studia, capra. Studia e leggi. 

Se mi accusi di asocialità perché ho sempre l’e-reader in mano e ti rispondo male (o volgarmente, dipende dai giorni), non lamentarti: … no, questa non te la spiego neanche. Fidati. 

Comprati un libro e mettiti a leggere. C’è una minima probabilità che poi tu miracolosamente afferri il senso dei nove punti esplicati sopra. Minima.

venerdì 8 aprile 2016

Perchè dovrei?

Volevo scrivere un post con la recensione di alcuni libri che ho letto. Per giorni ho pensato a cosa scrivere. Poi ho pensato: ma perché dovrei?

Non mi piace scrivere recensioni. È evidente: il mio profilo su Goodreads è desolato, quello su amazon pure e su Anobii nemmeno ho mai pensato di farne uno. Mi rendo conto che è intrinsecamente egoista, perché poi adoro quando qualcuno le recensioni le fa a me.
Non fraintendetemi: adoro parlare dei libri che leggo. Adoro chiacchierare di libri e di letture, magari davanti a una birra, raccogliere consigli, notare le differenze tra i miei gusti e quelli degli altri, vedere come si colgono aspetti diversi dello stesso libro, o dello stesso personaggio, con impressioni a volte proprio agli antipodi. Sarò grata in eterno per serate come quella che ho appena descritta e so di essere stata fortunata: nella mia vita ci sono stati tanti momenti così, con molte persone diverse, fin da quando ero bambina.
Sono cresciuta con i libri, l’ho scritto anche nell’incipit del mio libro di fiabe. Circondata dai libri, sepolta dai libri, con una madre meravigliosa che magari non mi comprava vestiti costosi, o mi faceva aspettare Babbo Natale per la Barbie che desideravo, ma mi ha sempre detto che i soldi spesi in libri non vanno mai rimpianti. Sono cresciuta lettrice ed è quello che resto, che voglio rimanere. Sono una lettrice, non un critico. E sono anche molto più lettrice di quanto io non sia scrittrice.
Fatico molto a formulare opinioni sui libri che leggo, a coordinare i pensieri in modo lineare, obiettivo, completo, un’opinione che altri possano trovare utile nel momento in cui vogliono decidere se leggere o meno quel libro, insomma. Se un libro non mi è piaciuto preferisco semplicemente tacere, smettere di considerarlo o di pensare ad esso, elaborare una recensione negativa, o peggio denigrante, mi sembrerebbe uno spreco di tempo, tempo che potrei utilizzare leggendo libri migliori. Raramente ho trovato recensioni negative utili, nel momento in cui ero io a dover scegliere se leggere un libro o meno, e soltanto quando si specificava l’eventuale mancanza di correttezza linguistica del romanzo. Ogni altro tipo di commento negativo difficilmente riesce a spostare la mia decisione: troppo opinabile, troppo dipendente dal gusto personale o anche dallo stato d’animo della persona che ha formulato il giudizio negativo. Al contrario, una recensione positiva può attirare la mia attenzione su qualcosa che altrimenti non avrei scelto: chi usa parte del proprio tempo per esporre i motivi per cui ha trovato di proprio gradimento un libro ha tutto il mio rispetto, la mia ammirazione e il mio ringraziamento, nel momento in cui proprio grazie a quel commento scopro romanzi o autori che altrimenti non avrei considerato. Io però raramente riesco a ricambiare questa enorme gentilezza, lo ammetto, anche con una certa vergogna. In parte, da mamma di due bimbi che lavora a tempo pieno e ha una lista di mille libri da leggere, oltre ad altri mille interessi e faccende da sbrigare, spesso devo scegliere a cosa dedicare il poco tempo che mi resta. Ma molto più spesso questo succede perché sono troppo coinvolta emotivamente nel libro, perché non puoi descrivere qualcosa da fuori quando ci sei ancora dentro.

Ci sono momenti in cui penso che la mia (la nostra?) sia una vera e propria patologia, una specie di psicosi: ci sono libri che mandano in corto circuito qualcosa nel mio cervello, al punto che leggere diventa una delle poche cose a cui riesco a pensare, rendendomi difficile il concentrarmi su altre cose per il bisogno di riprendere il libro in mano e continuare, diventa difficile addormentarmi prima di aver finito il libro e poi, quando questo accade, la lettura mi lascia svuotate, “disidratata”, sfinita, al punto che addormentarsi è comunque arduo. Ci sono stati momenti in cui faticavo ad abbandonare il libro anche per mangiare, faticavo a prestare attenzione a ciò che le altre persone mi dicevano, momenti in cui forse chi mi sgridava per la mia asocialità non aveva poi tutti i torti. Forse sì, sono (siamo?) davvero un po’ matta. Ma poi penso anche che mi è difficile capire come fa la gente a vivere senza provare una passione così intensa per una storia, senza capire quanto – davvero – siamo tutti lì, dentro quelle storie che sappiamo immaginare, raccontare, scrivere e poi leggere: è ciò che ci rende umani. Come scriveva Terry Pretchett, auto-nominarci “Homo sapiens” è stato arrogante, come se potessimo davvero definirci sapienti o saggi in qualche modo, dopo che senza remore mandiamo in malora molte delle cose che tocchiamo con la nostra esistenza. No, non siamo saggi. Siamo solo scimmie, con meno peli delle altre e con, in più, la capacità di raccontare storie e tramandare così la conoscenza, gli avvenimenti, ciò che amiamo, ciò che speriamo o immaginiamo, ciò che è successo, ciò che avrebbe potuto succedere. Ciò che potrebbe ancora succedere. Siamo lì, nelle storie che passano da una mente all’altra, da una penna a un foglio di carta, dallo scrittore al lettore. Siamo Pan narrans, scimmie cantastorie.

Perciò amo molto di più leggere che criticare o esaminare quello che leggo.

Quindi come faccio a farvi capire perché, nelle scorse settimane in cui ho lavorato così tanto per raggiungere l’obiettivo lavorativo che mi ero proposta, ci sono stati alcuni libri che mi hanno salvato il cervello? C’è chi potrebbe chiedersi come può, qualcuno che sta tra computer e scartoffie tutto il giorno, trovare pace e relax in mettersi di nuovo davanti a qualcosa di scritto, per di più in inglese. Ma so che voi non mi farete questa domanda.
Non so davvero cosa dirvi, se non questo: sono libri dei quali vorrei parlare, chiacchierare davanti a una birra per ore, discutere sui personaggi, ricordare i momenti che più mi hanno emozionato e vedere se sono gli stessi che hanno emozionato voi.
Sto parlando della saga Throne of Glass di Sarah J Maas. Nell’ordine i libri sono Throne of Glass, Crown of Midnight, Heir of Fire, Queen of Shadow, ma la saga non è finita, il quinto libro uscirà a Novembre se non ricordo male. È una saga fantasy, in uno dei sensi più “classici” del termine, con magia, rituali, duelli, spade e coltelli. Con una principessa perduta, un regno distrutto, un re malvagio e una storia epica alle spalle, che poco a poco viene svelata. La trama è interessante, vagamente ispirata a Cenerentola all’inizio (a detta dell’autrice), ma con una protagonista che non potrebbe essere più differente, perché aspettare principi e fate madrine proprio non è nelle sue corde.
Finiti i quattro libri (due li avevo già letti diverso tempo fa ma li ho riletti, mentre gli ultimi due erano nuovi per me), ho provato a leggere anche un altro libro della stessa autrice, il primo di una nuova saga, vagamente ispirato alla fiaba della Bella e la Bestia: A Court of Thorns and Roses. Anche qui, lo stile della Maas mi ha conquistata: uno stile che riesce ad essere allo stesso tempo fiabesco e privo di fronzoli inutili. Non saprei come definirlo diversamente.
Uno dei motivi per cui ho trovato rinfrescanti questi libri è l’assenza di tutto ciò che è “primo”: entrambe le protagoniste delle due saghe non sono fanciulle innocenti alle prese con il primo amore. Entrambe hanno una storia alle spalle, che viene svelata poco a poco, ma senza essere approfondita troppo: hanno amato davvero, hanno vissuto quell’amore, hanno perso qualcosa e subito e combattuto, e la storia inizia con una donna già quasi formata, anche se giovane, che deve terminare la propria crescita, non iniziarla da zero. È come quando si conosce una persona nella vita vera: ha un passato, che forse ti racconterà, ma può anche darsi di no perché magari non sono del tutto fatti tuoi, ciò che ti riguarda è la persona che è adesso, alla vita della quale potrai partecipare.


Posso solo dirvi: se vi ispira, provate. Sarò felice di chiacchierare con voi di questi libri, e di mettere un altro bel momento nella mia vita di lettrice.


sabato 12 marzo 2016

Una volta uno scienziato mi disse

Ho pensato parecchio a come scrivere questo post, e ci ho messo molto tempo a decidermi, primo perché lo trovo importante e, come è ovvio, volevo scriverlo bene, secondo perché mi sono resa conto che sarebbe stato molto facile cadere negli stessi errori che il post si propone di combattere: la disinformazione, l’allarmismo, la cattiva divulgazione. 
Cercherò perciò di essere il più generica possibile per non creare fenomeni di allarmismo su un aspetto in particolare e, soprattutto, cercherò di fare al meglio il mio mestiere: lo scienziato. E cercherò di usare la mia preparazione per aiutarvi un po' a capire quando qualcuno sta facendo cattiva divulgazione scientifica, cercherò di dare a chi non ha una preparazione scientifica come la mia qualche indizio, qualche campanello d’allarme che si metta a suonare quando un post letto su internet o un articolo letto su un giornale è un esempio di disinformazione dannosa.

Partiamo dalle basi. Cos’è l’informazione scientifica? È l’informazione che passa da uno scienziato (un ricercatore, un dottorando, un professore) al resto del mondo. Poiché lo scienziato, spesso, non è un divulgatore, il passaggio dal ricercatore al mondo  non avviene in un passaggio solo.
Prima, lo scienziato comunica i suoi risultati alla comunità scientifica attraverso la pubblicazione su riviste scientifiche, scritte in inglese e consultabili (non sempre gratuitamente se non si fa parte del mondo accademico) on line. È un processo tutt’altro che immediato: l’articolo, per essere pubblicato su una rivista scientifica, deve superare “l’esame” di altri scienziati (si chiamano reviewers o peers) che prima di approvare la pubblicazione possono chiedere chiarimenti sulle metodologie, richiedere esperimenti di controllo, dati supplementari, confutare le analisi eseguite, confutare i risultati stessi se ritengono che gli esperimenti non siano stati condotti nel modo corretto, o confutare il modo in cui i risultati sono discussi e le conclusioni tratte dagli autori. La pubblicazione può richiedere anche due o tre revisioni progressive dell’articolo scientifico, e spesso gli articoli vengono poi rifiutati dalla rivista (gli editor della quale sono comunque scienziati) se i reviewers (anche loro scienziati) non si dichiarano soddisfatti di come l’autore ha risposto alle loro critiche. La pubblicazione scientifica è un passaggio di informazioni tra SCIENZIATI, tra addetti ai lavori, per così dire. L’articolo scientifico non è fatto per essere compreso da tutti, e non perché i “non scienziati” non siano abbastanza intelligenti per capirlo, ma perché è scritto in una maniera tale da richiedere una preparazione adeguata, spesso specifica, per essere compreso. Un biologo non comprenderà facilmente un articolo di fisica quantistica o di sociologia, e viceversa.
Da chi viene letto l’articolo quindi? Da altri scienziati, in primis. Scienziati che lavorano in accademia e che fanno i ricercatori a loro volta, ma anche clinici e personale dell’area medica che poi potranno utilizzare i risultati di quell’articolo, magari, per ideare terapie sperimentali innovative, o scienziati impiegati nel settore ricerca e sviluppo di industrie farmaceutiche, che magari sfrutteranno quei risultati per progettare nuovi farmaci… questi sono solo esempi. Tra chi legge gli articoli scientifici possono esserci anche persone che si occupano di DIVULGAZIONE, cioè che (per lavoro o per passione) si occupano di tradurre alcune di quelle informazioni tecniche e scientifiche in un linguaggio più comprensibile anche a chi non ha una preparazione, appunto, tecnico-scientifica. Perciò, per arrivare al privato cittadino non-scienziato l’informazione fa due salti: dallo scienziato al divulgatore, dal divulgatore al resto del mondo.

E qui sorge il primo problema. Il divulgatore può anche non essere uno scienziato: può essere un giornalista, può essere un blogger, può essere il responsabile marketing di un’azienda che pensa di poter profittare (direttamente o indirettamente) dei risultati di quelle scoperte, può essere un appassionato che scrive un post su facebook o un tweet. In casi fortunati questa persona può essere laureata in discipline scientifiche, ma potrebbe anche non esserlo. Per citare un estremo, la figura di “divulgatore” potrebbe anche essere ricoperta da uno che ha sentito l’amico/fratello/cugino che fa il ricercatore parlare di risultati suoi o di altri, ha capito l’otto per il diciotto e poi vi viene a riferire una notizia completamente falsa spacciandovela per scientificamente provata perché “l’ha detto il mio coinquilino che lavora all’Imperial College di Londra”. 
Qui arriva perciò il primo consiglio: chiedetevi chi è la figura del divulgatore e/o quanti sono i divulgatori coinvolti: quanti “salti” ha fatto l’informazione prima di arrivare a voi? Avete modo di saperlo? Chi sono le persone che hanno fatto rimbalzare la notizia? Quante possibilità ci sono che abbiano letto e capito la fonte originale dell’informazione? Magari non avrete modo di rispondere a nessuna di queste domande, ma già farsi venire il dubbio predispone ad un atteggiamento critico nei confronti dell’informazione stessa.

La divulgazione “ufficiale” viene fatta di solito tramite riviste di largo consumo, apposite o meno, affidabili o meno. Ma ad oggi la fonte primaria di divulgazione è sempre internet. Cosa troviamo su internet? Risposta: di tutto. Dai siti/blog di divulgazione scientifica fatti bene alle idiozie più colossali. Fare divulgazione scientifica oggi è facilissimo, soprattutto se i risultati hanno qualche collegamento con i problemi più attuali: esce un articolo scientifico focalizzato sullo studio delle conseguenze dei vaccini? Qualunque sia il risultato mostrato nell'articolo, mille blog scriveranno post su di esso, alcuni facendo un lavoro fedele di divulgazione dei risultati (semplicemente traducendo in linguaggio più colloquiale ciò che è scritto con terminologia troppo tecnica), altri travisando completamente il messaggio. Viene pubblicato un articolo che identifica nella cacca di gallo cedrone siberiano una molecola coinvolta nell’inibizione dei meccanismi metabolici che portano all’obesità (l’esempio è appositamente idiota per non essere scambiato per vero)? Immediatamente duemila blog scriveranno che spalmarsi la pancia di cacca di gallo cedrone siberiano fa dimagrire.
È su questo che volevo concentrarmi in questo post: come si fa a riconoscere chi fa divulgazione scientifica seriamente e chi invece (coscientemente o meno) fa disinformazione? Non è facile, ma ho intenzione di darvi qualche indizio. Ricordatevi però che sono solo questo: indizi, non certezze matematiche. Non è impossibile trovare post divulgativi ben fatti, quasi insospettabili, eppure responsabili di colossali truffe. La cosa davvero triste è che tutto ciò potrebbe essere fatto di proposito, con il preciso (e criminale) intento di creare allarmismo e paura, o di spingere le persone a spendere soldi e tempo in qualcosa, come terapie fai da te, rimedi omeopatici, visite da sedicenti specialisti, e chi più ne ha più ne metta, creando anche situazioni di pericolo per la salute delle persone.

Il primo indizio arriva proprio all'inizio: il titolo. Diffidate di titoli troppo sensazionalistici. Cosa intendo per sensazionalistici? Quelli che identificano troppo chiaramente una relazione causa-effetto, ad esempio. Quelli che non utilizzano nessuna cautela nel definire i benefici di un farmaco o di un alimento, o nel definirne eventuali effetti negativi. Diffidate dell’indicativo presente, in sostanza. Prendete questo esempio: nell’articolo scientifico originale gli autori traggono la conclusione che “la molecola ABC (contenuta in piccole quantità nell’alimento HJK) è coinvolta nella patogenesi della malattia XYZ”, in un post di divulgazione il titolo potrebbe essere “HJK causa XYZ!”. Il post non ha tecnicamente detto una falsità ma, mentre l’effetto del messaggio scientifico originale dovrebbe essere quello di usare moderazione e buonsenso nell’assumere l’alimento HJK, l’effetto del titolo del post divulgativo sarà quello di spingere le persone più impressionabili a bandire dalla propria tavola l’alimento HJK. Magari eliminare un alimento dalla propria dieta non è un gran problema, ma provate a pensare di ripetere lo stesso processo per tre o quattro molecole diverse e già la dieta finale della persona “impressionabile” potrebbe avere qualche conseguenza. Ancora più pericoloso potrebbe essere il processo inverso: “la molecola ABC (contenuta in piccole quantità nelle radici della pianta DFG) ha attività antitumorale” diventa “DFG cura il cancro!”. Che succede se poi persone malate si mettono in testa di curarsi solo con infusi di radici di DFG? E che succede se le radici di DFG, oltre alla molecola ABC, contengono anche molecole tossiche? Siamo solo al titolo (e a giudicare dagli inquietanti dati di analfabetismo funzionale, il titolo potrebbe essere l’unica cosa che alcune persone leggono) e già stiamo creando un mare di problemi. E tenete presente che già il messaggio originale conteneva un’affermazione all’indicativo presente che, vi assicuro, nel mondo scientifico è una rarità: i reviewers tendono a chiedere agli autori di mitigare le proprie conclusioni, usando ad esempio “potrebbe essere coinvolta” invece di “è coinvolta”, a meno che i dati non siano assolutamente inconfutabili e verificati su un numero di soggetti esorbitante.

Secondo indizio: osservate il linguaggio utilizzato, già nelle prime frasi del post. Il primo campanello d'allarme è la correttezza sintattica e grammaticale: ho notato che spesso chi scrive idiozie le scrive pure male. Il secondo campanello è, di nuovo, il linguaggio sensazionalistico: troppa certezza, troppo clamore nello sbandierare i risultati, troppa fiducia in ciò che i dati lasciano intendere non si addicono alla scienza. Scienza è mettersi in dubbio, è essere affascianti da ciò che si scopre senza sovrastimare le sue potenzialità, è fare un passo alla volta nella direzione della “verità” assicurandosi di non comunicare falsità, è mostrare i frutti del proprio lavoro con orgoglio senza cadere nella tentazione di attribuire loro significati che non hanno (ancora). Se il post vi comunica qualcosa di diverso, fatevi venire il dubbio. Non dico che debba per forza essere falso: per fare un esempio, i risultati finali positivi della sperimentazione finale di una nuova cura contro un tipo di tumore finora poco trattabile SONO un risultato eccezionale e saranno, anche in ambito scientifico, presentati come tali; ma quanti post o articoli riguardano davvero la “scoperta” di cure contro mali incurabili? Pochi. Terzo campanello: eccessiva generalizzazione: diffidate di chi scrive “cancro” senza specificare di quale tipo di tumore sta parlando, di chi scrive diabete senza specificare se di tipo I o II, di chi parla di problemi alla tiroide senza chiarire ulteriormente a quale delle decine di disordini tiroidei che esistono si sta riferendo, di chi usa frasi come “aiutare il metabolismo” (aiutare in che senso? Quale metabolismo?) o “bruciare grassi” (nel caminetto?), di chi utilizza il prefisso “bio”, che va tanto di moda, davanti a parole a caso ottenendo una stupefacente assenza di significato (mi è capitato di leggere “biobatteri intestinali”: che diavolo sono i bio-batteri?!)… potrei andare avanti ad oltranza e faremmo Natale. Il sunto è: fidatevi di più di chi identifica una patologia specifica, di chi usa un linguaggio corretto anche se non tecnico, di chi trasmette fiducia nella scienza senza clamore e di chi manifesta, sempre sulla scienza, legittimi dubbi senza per questo demonizzare tutto il mondo della ricerca. E di chi evita di inventarsi termini assurdi.

Cercate un link all’articolo scientifico originale, alla fonte. Non c’è? Diffidate. C’è? Apritelo. Spesso potrete leggere soltanto titolo, autori e abstract, se non vi collegate utilizzando un server accademico, però anche senza una conoscenza specifica dell’argomento (e anche senza una conoscenza approfondita dell’inglese, oserei dire) riuscirete, se non altro, a confrontare il titolo dell’articolo e il titolo del post: sembrano coerenti o il titolo del post è esagerato? O, addirittura, il titolo del post travisa completamente il titolo dell’articolo? Già questo confronto potrà darvi ulteriori indizi. Ma, da scienziata, vorrei cercare di darvi qualche strumento in più perciò ora fate attenzione: così come esistono pessimi esempi di esseri umani, esistono anche PESSIMI SCIENZIATI. Di conseguenza, esiste la CATTIVA SCIENZA. Purtroppo viviamo in un mondo imperfetto e anche la cattiva scienza può avere il suo spazio nelle pubblicazioni scientifiche, sia su riviste mediocri che, più raramente, su ottime riviste (se in qualche modo lo scienziato ha influenza sull’editor; so che è brutto  da dire, da parte di una persona che incita ad avere fiducia nella scienza, ma la scienza è fatta da scienziati che hanno tutti i difetti di ciò che sono: umani).
Cosa intendo per buone o cattive riviste?  
Le riviste scientifiche sono tantissime: possono essere generiche (broad audience, le chiamiamo, intendendo le riviste che pubblicano articoli interessanti per ogni “tipo” di scienziato, come Nature o Science) o settoriali, possono avere un grandissimo seguito o essere lette e citate solo da scienziati impegnati in quel particolare settore. Per distinguere le riviste migliori la comunità scientifica si è inventata diverse “metriche”, la più comune delle quali è l’IMPACT FACTOR, un indice che tiene conto di quanto gli articoli usciti su quella rivista vengono citati da altri articoli scientifici: in teoria, più un articolo è interessante e affidabile più viene citato in altri lavori, perciò più una rivista fa uscire articoli di buon livello più il suo impact factor sale. Non solo: più una rivista ha alto impact factor più avrà interesse nel mantenere il prestigio, perciò più sarà severa e selettiva nella scelta degli articoli da pubblicare, arruolando esperti di alto livello per revisionare gli articoli che le vengono proposti dagli scienziati di tutto il mondo. In questo modo la qualità delle ricerche pubblicate su quella rivista dovrebbe farsi progressivamente più alta, permettendole di essere sempre più citata. È una sorta di circolo vizioso, ovviamente soggetto ad errore umano e a eventuali simpatie o antipatie di editor e reviewers, ma IN TEORIA dovrebbe rendere la qualità degli articoli scientifici pubblicati su quella rivista direttamente proporzionale all’impact factor della rivista stessa. È un sistema imperfetto ma è il migliore che abbiamo, per ora. 
Perciò la domanda che dovete farvi è: su quale rivista è pubblicato l’articolo scientifico sul quale si basa il post che ho letto? A questo link potrete trovare gli impact factor di tutte le riviste scientifiche. Per farla breve, ci sono riviste ad impact factor altissimo, su cui è difficilissimo pubblicare (sono riviste broad audience come Nature, che se non ricordo male dovrebbe essere in testa alla classifica con un impact factor attorno a 42, o Science, Cell, Lancet, tutte le riviste della collana Nature e Nature Reviews che hanno  un impact factor maggiore di 30. Poi ci sono altre riviste, comunque molto prestigiose ma un po’ più settoriali, specialmente dell’area medica, con degli impact factor intermedi (per intenderci, riviste settoriali avranno impact factor ovviamente inferiori a quelle più generali, perché articoli settoriali saranno citati appunto all’interno dello stesso settore). Poi ci sono le riviste a basso impact factor, anche inferiori a 2 o 1. Ora, supponiamo di essere uno scienziato che ha in mano dei brutti risultati, e magari ha anche una buona dose di presunzione che non gli permette di apprezzare quanto il suo studio sia limitato o lacunoso: tenteremo di pubblicare su una rivista ad alto impact factor, che ci rifiuterà la pubblicazione (magari direttamente, senza nemmeno farlo passare dai reviewers), allora ripiegheremo su riviste di impact factor via via inferiori, fino a che non troveremo un editor distratto o poco serio e reviewers compiacenti, situazione che, verosimilmente, si verificherà su riviste a impact factor davvero basso. Ecco, questo è il meccanismo. È chiaro che uno scienziato potrà anche essere poco fortunato, incontrare reviewers poco onesti o editor prevenuti. Però, in generale, questo sistema tenta di garantire che su riviste molto lette e molto citate (quindi con alto impact factor) si pubblichino articoli di ottima qualità.
Mi sono dilungata, ma spero di essere stata chiara.

Voglio lasciarvi un ultimo consiglio: fate attenzione a come i post divulgativi che usano la parola CORRELAZIONE. È una parola pericolosissima, in bocca alle persone sbagliate. Statisticamente, correlazione tra due eventi significa che il verificarsi di un evento avviene contestualmente al verificarsi dell’altro, se la correlazione è positiva, oppure che il verificarsi di uno tende ad escludere il verificarsi dell’altro (correlazione negativa). NON SIGNIFICA CHE UNO DEI DUE EVENTI CAUSA L’ALTRO (o l’assenza dell’altro). Uno dei cavalli di battaglia della cattiva informazione scientifica è proprio questo: suggerire relazioni causali tra due eventi che, nell’articolo originale, sono stati riportati come correlati. La correlazione è pura osservazione degli eventi. Trovare una correlazione può essere un indizio di causalità, ma può anche non esserlo. Per sostenere una tesi di causalità devono essere presentate ben altre evidenze (esperimenti in vitro, prove su modello animale), non basta osservare che le due cose accadono insieme.
La correlazione è pericolosa e ingannevole anche per un altro motivo: una persona poco onesta e con un po’ di manualità nell’ottenere grafici riuscirà a farvi credere che determinati eventi sono correlati anche se non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro. Mostrata una presunta correlazione (e una figura è più potente di mille parole), basterà suggerire velatamente che uno degli eventi possa essere causato dall’altro per impressionare e allarmare persone con meno spirito critico. Potrete trovare qui una trattazione molto bella di questo problema, ma cercherò di spiegarmi meglio con un esempio. Prendiamo un evento che abbia avuti un andamento crescente dagli anni cinquanta ad oggi: il numero di diagnosi di autismo nei bambini, ad esempio (uno a caso, eh). Quale sia la causa di questo andamento crescente non ci è dato sapere con certezza, ma so che gran parte della comunità scientifica fa notare come in realtà le scienze comportamentali abbiano subito una grande espansione negli ultimi decenni, identificando sempre più forme di sindromi autistiche e sviluppando metodi di diagnosi sempre più precisi e precoci: ergo, l’incremento non sarebbe tanto nella casistica quanto nel riconoscimento delle situazioni. Questo non è rilevante, comunque. Ora, prendiamo un qualunque altro evento che abbia subito un incremento dagli anni cinquanta ad oggi: ce ne sono a bizzeffe, a partire dall’utilizzo di fitofarmaci e fertilizzanti in agricoltura, inquinamento dell’aria, numero di televisioni nelle case, donne che lavorano fuori casa, alfabetizzazione e, perché no, numero di bambini vaccinati. Un buon grafico con qualche conoscenza di statistica riuscirà a farvi vedere una correlazione tra uno qualsiasi di questi eventi e l’incremento delle diagnosi di autismo. È facilissimo, basta giocare un po’ con la scala di rappresentazione dei due eventi. Potrei farvi vedere che l’incremento delle diagnosi di autismo è correlato all’incremento nel numero di nidi di piccione sotto le tegole delle case, se volessi; non significa che i due eventi abbiano davvero qualcosa a che fare l’uno con l’altro. Prima di essere squartata da eventuali antivaccinisti in ascolto: è vero, non posso escludere a priori che i vaccini abbiano avuto un ruolo nell’eventuale incremento nella casistica, per carità. Anzi: essendo uno scienziato e, pertanto, intrinsecamente portata a seguire indizi e farmi domande, mi chiedo se i due eventi siano davvero legati e se uno può essere la causa dell’altro. È questo che fanno gli scienziati. È questo che la comunità scientifica sta facendo da anni: si è fatta delle domande e ha disegnato studi sempre più ampi e sempre più mirati a valutare il legame tra autismo e vaccini e no, finora non è stata dimostrata nessuna correlazione reale o relazione causale tra i due eventi.


Detto questo ci tengo a precisare una cosa: non sono un medico, non sono un’impiegata in una ditta farmaceutica, non ricevo nessun tipo di incentivo per dire quello che ho detto. Sono una microbiologa, lavoro in università e studio gli ecosistemi batterici complessi, soprattutto quelli legati al corpo umano come il microbiota intestinale e il suo rapporto con la salute umana. Ma prima di tutto e soprattutto, sono una che ama la ricerca e tutto ciò che questo rappresenta: il continuo mettersi in dubbio, il continuo studiare ciò che altri hanno scoperto, la possibilità di togliere quel mattoncino in più dal muro dell’ignoranza.  E la cattiva informazione è peggio dell’ignoranza.